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Oggi alla ribalta uno dei romanzi meno conosciuti e più sofferti di John Steinbeck, premio Nobel per la letteratura nel 1962, “Al Dio sconosciuto”.
- Titolo: Al Dio sconosciuto
- Autore: John Steinbeck
- Editore: Bompiani
- Anno di Pubblicazione: 2011
Trama
“Al dio sconosciuto” è la terza opera di John Steinbeck e certamente non tra le più note, ma ciò che mi ha colpito è proprio per il tema trattato: una specie di panteismo naturale che mette il naso nelle forze della Natura senza voler dare spiegazioni, lasciando un grande punto di domanda alla fine, senza velleità filosofiche o religiose.
Solo “Ma chi siamo in realtà?” e “Dove stiamo vivendo?”
Anche se non troveremo le risposte, son domande che val la pena di porsi, se non altro per ridimensionarci un pochino, per prender coscienza del nostro essere insettini che corrono e si dimenano (e fanno danni) sulla superficie della Terra.
Il romanzo ruota attorno al rapporto tra il protagonista Joseph, la Terra e tutto ciò che di impalpabile e di illogico compenetra, modifica e comanda il mondo fisico. Terra intesa come la Grande Madre, colei tutto dà e tutto prende, colei che i suoi figli nutre e uccide.
L’impalpabile e l’illogico è forse racchiuso nell’idea del “dio sconosciuto” che rende la terra feconda, corre nel vento ammassando le nubi, concede l’abbondanza per poi ridurla in carestia e vuole il suo altare bagnato di sangue.
Joseph è legato a queste forze, se le sente scorrere dentro e le percepisce nell’aria.
E’ un dono, una pazzia o una maledizione?
E l’interpretazione dei segni e delle sensazioni è ardua, come se il dio non volesse mai svelare il suo vero volto.
Di quel dio ne troverà l’altare, in una radura al centro di una pineta fitta come una barriera impenetrabile, resa silenziosa e ovattata da un tappeto di aghi soffici che assorbono ogni rumore portando il luogo al di fuori dal tempo: è una roccia coperta di muschio, talmente grande da essere assurda …. Alla base della roccia una piccola grotta contornata da felci e dalla grotta un ruscello: la sacralità è quasi palpabile, come lo è la potenza e la bontà ….. Ma cos’è la bontà in un dio senza tempo?
“Sono vecchio. Se aspetti due anni potrò venire con te, librandomi sopra il tuo capo potrò aiutarti. ”
Non bastano le parole del padre a frenare il suo bisogno impellente di possedere un appezzamento di terra è pressante. E lo cercherà come un assetato, finchè arriverà nel favoleggiato West, territorio vergine, in fondo da poco strappato agli indiani, e, nella valle di Nuestra Seniora, finalmente, davanti alle gialle distese di avena, ad un fiume ricco e quieto che scorre portando vita alla Terra, ad un’antica quercia capirà di essere giunto alla meta.
Il padre è già lì ad aspettarlo, nella quercia. In spirito finche è in vita, realmente dopo la morte: forse sono i fantasmi la realtà, e i viventi solo sfocate ombre di quella realtà troppo complessa per venir racchiusa nella materia.
Dopo la morte del padre anche i fratelli lo raggiungono con le famiglie, la loro terra, senza steccati nè divisioni, costituirà una vasta tenuta nella quale tutto è di tutti ed il patriarca indiscusso quanto non dichiarato è Joseph. Egli non è il primogenito ma il suo dono ed il suo carisma bastano a decretarlo tale.
D’altronde chi altro potrebbe addossarsi questo fardello?
Thomas che vive in simbiosi con il mondo animale e che solo con gli animali riesce ad avere un rapporto paritario quanto profondo? Burton, cieco prigioniero della religione? Benjy, il più giovane, talmente vano da non poter essere neppure malvagio?
Il rapporto di Joseph con la Terra……
“E’ mia, mia fino al suo centro.”
…….. e con gli animali che alleva è talmente forte, carnale da supplire anche alla mancanza di un rapporto fisico con una donna, ma, visto che il principale comandamento è fertilità, egli per primo sente di dover obbedire ed essere fertile. Troverà la sua compagna in Elisabeth, una giovane maestra che vede nei suoi occhi quelli del Cristo: profondi, pietosi, pieni di saggezza e cose non dette. Lo seguirà nella valle, lasciandosi alle spalle i suoi sogni di bambina, saltando, non senza paura, in quella vita nuova con quell’uomo sconosciuto.
Neppure in chiesa, durante il suo matrimonio, neppure nelle parole del prete né nell’atmosfera comunque sacra di quel momento, Joseph riuscirà a captare un dio diverso da quello che gli impone il suo essere, anzi tutto in quel luogo gli parrà estraneo, addirittura corrotto. Il dio tornerà a parlargli a cerimonia finita, nel suono delle campane. La buona voce del ferro gli ricorderà i raggi del sole che al mattino percuotono il cielo e la pioggia che irrora il ventre gravido della terra, il vento caldo che sfiora le cime degli alberi: solo nella Natura egli riconosce il sacro.
Solo Rama, moglie di Thomas, ne intuisce l’anima. Rama la forte, la giusta, colei che, come la Grande Madre, elargisce gioie immense ai buoni e punizioni terribili agli ingiusti, che cercherà di far capire ad Elisabeth chi in realtà sia Joseph. Lei sa, perché vede al di là dell’apparenza e capisce al di là della ragione ed ha visto in quell’uomo dagli occhi del Cristo il ricettacolo di tutte le anime umane, il simbolo dell’anima stessa della terra. E’ più forte della morte, più grande delle montagne: è tutti gli uomini in uno solo. Ciò che tace, Rama, è la terribile solitudine alla quale egli è condannato. Nessuno potrà mai vedere nel profondo di quel cuore poiché nessuno di quella vista potrebbe sopportarne il peso.
Ovviamente sarà Joseph a far nascere suo figlio, perché così deve essere e dopo pochi giorni lo poserà tra i rami più bassi della quercia in una consacrazione pagana alle forze che regolano quei luoghi. Ma l’albero verrà ucciso da Burton, integralista di Dio, nel tentativo di distruggere con quel gesto tutto ciò che il suo dio condanna.
Fu la morte dell’albero, simbolo di vita, e l’oltraggio al dio a portare la siccità che spaccò il terreno e prosciugò i pozzi?
Cosa placherà il dio sconosciuto? Quale sangue pretenderà? Alla fine anche Joseph dovrà sacrificarsi, in un antico rito, per render nuovamente feconda la terra? O sarà il dio a sacrificarsi per diventare vento e nubi e pioggia, perché Joseph altri non è che il dio?
John Steinbeck
John Steinbeck nasce a Salinas, una cittadina rurale della California, il 27 febbraio 1902. Di famiglia agiata per il luogo (padre tesoriere della contea di Monterey, madre insegnante), John ha un’infanzia serena durante la quale sviluppa un legame molto forte con quella terra.
Decide molto presto quale sarebbe stata la sua strada ed è ancora un adolescente timido e schivo quando inizia a scrivere racconti e poesie.
Dal 1919 al 1925 frequenta i corsi di letteratura inglese e scrittura creativa presso la Stanford University, poi interrompe gli studi per iniziare quel migrare di luogo in luogo, mantenendosi con lavori occasionali, che influenzerà fortemente la sua vita di scrittore: fa il pescatore sulle rive della Monterey Bay, sterratore al Medison Square Garden, bracciante in Oklahoma … ed il giornalista a New York già nel ’26 per il New York American … L’anno successivo ritorna in California e trova un impiego di custode di una residenza estiva sul lago Tahoe: è qui che inizia a scrivere in modo continuativo e proficuo e, nel 1928, pubblica il suo primo romanzo, “Cup of Gold”, appena due mesi prima del crollo di Wall Street che squasserà l’economia americana: il libro passa sotto silenzio sia per quanto riguarda le vendite, che la critica.
Si sposta nel 1930 e si trasferisce a Pacific Grove, dove continua a vivere in modo precario e, questa volta, grazie all’aiuto economico della sua famiglia d’origine; d’altra parte questo gli permette di continuar a scrivere e, nel ’35, pubblica il libro che l’avrebbe fatto conoscere al grande pubblico ed alla critica: Pian della Tortilla. Nell’ottobre del ’36 pubblica “In Dubious Battle” e, subito dopo, scrive una serie di articoli (raccolti successivamente sotto il titolo di “The Harvest Gipsy”) per il San Francisco News. E’ del ’37 “Uomini e topi”, del quale cura anche la riduzione teatrale, che si rivela un altro successo. Due anni dopo “Furore”, con il quale si aggiudica il premio Pulitzer e dal quale, l’anno successivo, viene tratto l’omonimo film per la regia di John Ford. La sua attenzione e sensibilità per i più poveri, per coloro che giorno per giorno cavano a stento un tozzo di pane continua con un documentario, girato nel ’40, sulle condizioni di vita della società rurale messicana (“The forgotten Village”)
Siamo all’inizio della Seconda Guerra Mondiale e John Steinbeck è corrispondente di guerra per il “New York Herald Tribune” in Europa e in Africa: da questa esperienza nasce, nel ’42,“La luna è tramontata”, romanzo che si ispira alla Resistenza norvegese e che diventerà anche un dramma di notevole successo, ed un diario di guerra dal titolo “Once there was a War” che verrà dato alle stampe solo nel ’58.
Rientrato in America, Steinbeck alterna la scrittura a lunghi viaggi in tutto il mondo (Italia compresa) che gli forniscono materiale nuovo, nuove esperienze e la possibilità di scrivere anche dei reportage e libri di viaggio, tra i quali “Travels with Charlie: in Search of America”, del 1962. Continua a scrivere per il “New York Herald Tribune” e, proprio per questo quotidiano, va in Russia assieme al fotografo Robert Capa.
Ma i successi letterari, in questo periodo, stentano ad arrivare: “Vicolo Cannery ” e “Quel fantastico giovedì ” vengono trattati piuttosto freddamente dalla critica che li considerano una specie di brutta copia di “Pian della Tortilla”. La rivincita di Steinbeck arriva nel ’52 con “La valle dell’Eden” (portata nel ’55 nelle sale cinematografiche con la regia di Elia Kazan e con James Dean come interprete principale). Dello stesso anno la sceneggiatura di “Viva Zapata” con Marlon Brando e sempre Elia Kazan come regista.
Proprio nel 1962 gli viene viene conferito il premio Nobel per la letteratura
Muore il 20 dicembre del 1968 e viene sepolto nella sua Salinas, nel Garden of Memories.
Malgrado i premi, le traduzioni cinematografiche e teatrali, si può dire che John Steinbeck abbia avuto più successo all’estero che in patria. In Italia, ad esempio, i suoi libri furono tradotti da scrittori come Pavese, Vittorini e Montale.
La causa forse è da ricercare nel fatto che, pur essendo contemporaneo di Hemingway e Scott Fitzgerald, non rappresenta il volto classico della “generazione perduta” ma, piuttosto, quello dell’America del Sud con le sue contraddizioni, il suo passato razzista, la sua voglia di riscatto e questo i suoi libri, come quelli di William Faulkner, ripropongono sempre.