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“Al Dio sconosciuto” di John Steinbeck

30 Mag

In onda Mercoledì 30 maggio alle ore 18 – e in replica Lunedì 4 giugno  alle ore 13 –  su Radio San Donà 102.200, Overbooking!

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Oggi alla ribalta uno dei romanzi meno conosciuti e più sofferti di John Steinbeck, premio Nobel per la letteratura nel 1962, “Al Dio sconosciuto”.

  • Titolo: Al Dio sconosciuto
  • Autore: John Steinbeck
  • Editore: Bompiani
  • Anno di Pubblicazione: 2011

Trama

“Al dio sconosciuto” è la terza opera di John Steinbeck e certamente non tra le più note, ma ciò che mi ha colpito è proprio per il tema trattato: una specie di panteismo naturale che mette il naso nelle forze della Natura senza voler dare spiegazioni, lasciando un grande punto di domanda alla fine, senza velleità filosofiche o religiose.

Solo “Ma chi siamo in realtà?” e “Dove stiamo vivendo?”

Anche se non troveremo le risposte, son domande che val la pena di porsi, se non altro per ridimensionarci un pochino, per prender coscienza del nostro essere insettini che corrono e si dimenano (e fanno danni) sulla superficie della Terra.

Il romanzo ruota attorno al rapporto tra il protagonista Joseph, la Terra e tutto ciò che di impalpabile e di illogico compenetra, modifica e comanda il mondo fisico. Terra intesa come la Grande Madre, colei tutto dà e tutto prende, colei che i suoi figli nutre e uccide.

L’impalpabile e l’illogico è forse racchiuso nell’idea del “dio sconosciuto” che rende la terra feconda, corre nel vento ammassando le nubi, concede l’abbondanza per poi ridurla in carestia e vuole il suo altare bagnato di sangue.

Joseph è legato a queste forze, se le sente scorrere dentro e le percepisce nell’aria.

E’ un dono, una pazzia o una maledizione?

E l’interpretazione dei segni e delle sensazioni è ardua, come se il dio non volesse mai svelare il suo vero volto.

Di quel dio ne troverà l’altare, in una radura al centro di una pineta fitta come una barriera impenetrabile, resa silenziosa e ovattata da un tappeto di aghi soffici che assorbono ogni rumore portando il luogo al di fuori dal tempo: è una roccia coperta di muschio, talmente grande da essere assurda …. Alla base della roccia una piccola grotta contornata da felci e dalla grotta un ruscello: la sacralità è quasi palpabile, come lo è la potenza e la bontà ….. Ma cos’è la bontà in un dio senza tempo?

“Sono vecchio. Se aspetti due anni potrò venire con te, librandomi sopra il tuo capo potrò aiutarti. ”

Non bastano le parole del padre a frenare il suo bisogno impellente di possedere un appezzamento di terra è pressante. E lo cercherà come un assetato, finchè arriverà nel favoleggiato West, territorio vergine, in fondo da poco strappato agli indiani, e, nella valle di Nuestra Seniora, finalmente, davanti alle gialle distese di avena, ad un fiume ricco e quieto che scorre portando vita alla Terra, ad un’antica quercia capirà di essere giunto alla meta.

Il padre è già lì ad aspettarlo, nella quercia. In spirito finche è in vita, realmente dopo la morte: forse sono i fantasmi la realtà, e i viventi solo sfocate ombre di quella realtà troppo complessa per venir racchiusa nella materia.

Dopo la morte del padre anche i fratelli lo raggiungono con le famiglie, la loro terra, senza steccati nè divisioni, costituirà una vasta tenuta nella quale tutto è di tutti ed il patriarca indiscusso quanto non dichiarato è Joseph. Egli non è il primogenito ma il suo dono ed il suo carisma bastano a decretarlo tale.

D’altronde chi altro potrebbe addossarsi questo fardello?

Thomas che vive in simbiosi con il mondo animale e che solo con gli animali riesce ad avere un rapporto paritario quanto profondo? Burton, cieco prigioniero della religione? Benjy, il più giovane, talmente vano da non poter essere neppure malvagio?

Il rapporto di Joseph con la Terra……

“E’ mia, mia fino al suo centro.”

…….. e con gli animali che alleva è talmente forte, carnale da supplire anche alla mancanza di un rapporto fisico con una donna, ma, visto che il principale comandamento è fertilità, egli per primo sente di dover obbedire ed essere fertile. Troverà la sua compagna in Elisabeth, una giovane maestra che vede nei suoi occhi quelli del Cristo: profondi, pietosi, pieni di saggezza e cose non dette. Lo seguirà nella valle, lasciandosi alle spalle i suoi sogni di bambina, saltando, non senza paura, in quella vita nuova con quell’uomo sconosciuto.

Neppure in chiesa, durante il suo matrimonio, neppure nelle parole del prete né nell’atmosfera comunque sacra di quel momento, Joseph riuscirà a captare un dio diverso da quello che gli impone il suo essere, anzi tutto in quel luogo gli parrà estraneo, addirittura corrotto. Il dio tornerà a parlargli a cerimonia finita, nel suono delle campane. La buona voce del ferro gli ricorderà i raggi del sole che al mattino percuotono il cielo e la pioggia che irrora il ventre gravido della terra, il vento caldo che sfiora le cime degli alberi: solo nella Natura egli riconosce il sacro.

Solo Rama, moglie di Thomas, ne intuisce l’anima. Rama la forte, la giusta, colei che, come la Grande Madre, elargisce gioie immense ai buoni e punizioni terribili agli ingiusti, che cercherà di far capire ad Elisabeth chi in realtà sia Joseph. Lei sa, perché vede al di là dell’apparenza e capisce al di là della ragione ed ha visto in quell’uomo dagli occhi del Cristo il ricettacolo di tutte le anime umane, il simbolo dell’anima stessa della terra. E’ più forte della morte, più grande delle montagne: è tutti gli uomini in uno solo. Ciò che tace, Rama, è la terribile solitudine alla quale egli è condannato. Nessuno potrà mai vedere nel profondo di quel cuore poiché nessuno di quella vista potrebbe sopportarne il peso.

Ovviamente sarà Joseph a far nascere suo figlio, perché così deve essere e dopo pochi giorni lo poserà tra i rami più bassi della quercia in una consacrazione pagana alle forze che regolano quei luoghi. Ma l’albero verrà ucciso da Burton, integralista di Dio, nel tentativo di distruggere con quel gesto tutto ciò che il suo dio condanna.

Fu la morte dell’albero, simbolo di vita, e l’oltraggio al dio a portare la siccità che spaccò il terreno e prosciugò i pozzi?

Cosa placherà il dio sconosciuto? Quale sangue pretenderà? Alla fine anche Joseph dovrà sacrificarsi, in un antico rito, per render nuovamente feconda la terra? O sarà il dio a sacrificarsi per diventare vento e nubi e pioggia, perché Joseph altri non è che il dio?

John Steinbeck

John Steinbeck nasce a Salinas, una cittadina rurale della California, il 27 febbraio 1902. Di famiglia agiata per il luogo (padre tesoriere della contea di Monterey, madre insegnante), John ha un’infanzia serena durante la quale sviluppa un legame molto forte con quella terra.

Decide molto presto quale sarebbe stata la sua strada ed è ancora un adolescente timido e schivo quando inizia a scrivere racconti e poesie.

Dal 1919 al 1925 frequenta i corsi di letteratura inglese e scrittura creativa presso la Stanford University, poi interrompe gli studi per iniziare quel migrare di luogo in luogo, mantenendosi con lavori occasionali, che influenzerà fortemente la sua vita di scrittore: fa il pescatore sulle rive della Monterey Bay, sterratore al Medison Square Garden, bracciante in Oklahoma … ed il giornalista a New York già nel ’26 per il New York American … L’anno successivo ritorna in California e trova un impiego di custode di una residenza estiva sul lago Tahoe: è qui che inizia a scrivere in modo continuativo e proficuo e, nel 1928, pubblica il suo primo romanzo, “Cup of Gold”, appena due mesi prima del crollo di Wall Street che squasserà l’economia americana: il libro passa sotto silenzio sia per quanto riguarda le vendite, che la critica.

Si sposta nel 1930 e si trasferisce a Pacific Grove, dove continua a vivere in modo precario e, questa volta, grazie all’aiuto economico della sua famiglia d’origine; d’altra parte questo gli permette di continuar a scrivere e, nel ’35, pubblica il libro che l’avrebbe fatto conoscere al grande pubblico ed alla critica: Pian della Tortilla. Nell’ottobre del ’36 pubblica “In Dubious Battle” e, subito dopo, scrive una serie di articoli (raccolti successivamente sotto il titolo di “The Harvest Gipsy”) per il San Francisco News. E’ del ’37 “Uomini e topi”, del quale cura anche la riduzione teatrale, che si rivela un altro successo. Due anni dopo “Furore”, con il quale si aggiudica il premio Pulitzer e dal quale, l’anno successivo, viene tratto l’omonimo film per la regia di John Ford. La sua attenzione e sensibilità per i più poveri, per coloro che giorno per giorno cavano a stento un tozzo di pane continua con un documentario, girato nel ’40, sulle condizioni di vita della società rurale messicana (“The forgotten Village”)

Siamo all’inizio della Seconda Guerra Mondiale e John Steinbeck è corrispondente di guerra per il “New York Herald Tribune” in Europa e in Africa: da questa esperienza nasce, nel ’42,“La luna è tramontata”, romanzo che si ispira alla Resistenza norvegese e che diventerà anche un dramma di notevole successo, ed un diario di guerra dal titolo “Once there was a War” che verrà dato alle stampe solo nel ’58.

Rientrato in America, Steinbeck alterna la scrittura a lunghi viaggi in tutto il mondo (Italia compresa) che gli forniscono materiale nuovo, nuove esperienze e la possibilità di scrivere anche dei reportage e libri di viaggio, tra i quali “Travels with Charlie: in Search of America”, del 1962. Continua a scrivere per il “New York Herald Tribune” e, proprio per questo quotidiano, va in Russia assieme al fotografo Robert Capa.

Ma i successi letterari, in questo periodo, stentano ad arrivare: “Vicolo Cannery ” e “Quel fantastico giovedì ” vengono trattati piuttosto freddamente dalla critica che li considerano una specie di brutta copia di “Pian della Tortilla”. La rivincita di Steinbeck arriva nel ’52 con “La valle dell’Eden” (portata nel ’55 nelle sale cinematografiche con la regia di Elia Kazan e con James Dean come interprete principale). Dello stesso anno la sceneggiatura di “Viva Zapata” con Marlon Brando e sempre Elia Kazan come regista.

Proprio nel 1962 gli viene viene conferito il premio Nobel per la letteratura

Muore il 20 dicembre del 1968 e viene sepolto nella sua Salinas, nel Garden of Memories.

Malgrado i premi, le traduzioni cinematografiche e teatrali, si può dire che John Steinbeck abbia avuto più successo all’estero che in patria. In Italia, ad esempio, i suoi libri furono tradotti da scrittori come Pavese, Vittorini e Montale.

La causa forse è da ricercare nel fatto che, pur essendo contemporaneo di Hemingway e Scott Fitzgerald, non rappresenta il volto classico della “generazione perduta” ma, piuttosto, quello dell’America del Sud con le sue contraddizioni, il suo passato razzista, la sua voglia di riscatto e questo i suoi libri, come quelli di William Faulkner, ripropongono sempre.

[Rosalba Crosilla]

“Il condominio” di James G. Ballard

23 Mag

In onda Mercoledì 23 maggio alle ore 18 – e in replica Lunedì 28 maggio  alle ore 13 –  su Radio San Donà 102.200, Overbooking!

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In questa puntata andiamo su quella che si potrebbe definire “fantascienza sociologica” e recuperiamo un classico del 1975 di Ballard!

  • Titolo: Il condominio
  • Autore: James G. Ballard
  • Editore: Feltrinelli
  • Anno di Pubblicazione: 2003

Trama

Le vicende del romanzo si sviluppano nell’arco di tre mesi all’interno di un grattacielo londinese di lusso, «il primo a essere terminato e abitato di cinque unità identiche, facenti parte di un unico progetto immobiliare. […] Di fatto, quella struttura abitativa era una piccola città verticale, con i suoi duemila abitanti inscatolati nel cielo».

L’edificio sembra offrire ai condomini tutte le comodità della vita moderna: piscine, scuola materna, banca, parrucchiere, sauna, ristorante, palestra, supermercato e ascensori ad alta velocità. Gli appartamenti sono strutturati in modo differente a seconda del piano di appartenenza: quelli ai piani più bassi sono più piccoli e, quindi, più economici; per contro, man mano che si sale verso i piani più alti, gli appartamenti diventano sempre più grandi e costosi, fino ad arrivare all’attico: il più spazioso appartamento di tutto l’edificio, abitato da uno degli architetti del grattacielo, Anthony Royal. Di fatto, l’edificio rispecchia al suo interno la stessa suddivisione di classe della società: i semplici lavoratori ai piani bassi, la media borghesia ai piani intermedi, e i ricchi professionisti nei lussuosi appartamenti in cima.

Duemila, in tutto, gli abitanti del grattacielo, i quali «formavano una collezione sostanzialmente omogenea di ricchi professionisti: avvocati, medici, fiscalisti, docenti universitari e pubblicitari, insieme a un piccolo gruppo di piloti d’aereo, tecnici cinematografici e terzetti di hostess che si dividevano l’appartamento. Secondo il metro consueto del livello finanziario e del grado d’istruzione erano probabilmente più simili gli uni agli altri dei membri di qualsiasi altro agglomerato sociale immaginabile; avevano gli stessi gusti e gli stessi atteggiamenti, gli stessi pallini e lo stesso stile, che si rifletteva chiaramente nella scelta delle automobili parcheggiate attorno al grattacielo, nella maniera elegante ma in qualche modo standardizzata di arredare gli appartamenti, nella selezione di vivande sofisticate del reparto Delikatessen al supermarket, nel tono delle loro voci sicure».

Il convivere tutti in un unico edificio (sebbene delle dimensioni di un grattacielo), scatena ben presto una serie di screzi e rivalità:

« Laing […] già poco tempo dopo il suo arrivo nel condominio, aveva comunque dovuto notare attorno a lui una straordinaria quantità di antagonismi appena velati. Il grattacielo aveva una seconda vita tutta sua. […] poco sotto la schiuma del pettegolezzo professionale si stendeva una dura cappa di rivalità personali. A volte aveva la sensazione che tutti stessero aspettando che qualcuno facesse un grosso errore […]

I sei mesi precedenti erano stati un periodo di litigi continui fra i suoi vicini, di scontri volgari per gli ascensori difettosi e l’aria condizionata mal funzionante, per gli inspiegabili guasti elettrici, per il rumore e le contese sugli spazi di parcheggio […] Le tensioni sotterranee fra gli inquilini erano decisamente forti, e solo in parte smorzate dal tono civilizzato del palazzo e dall’ovvia esigenza di rendere l’immenso condominio un successo. »

Ma una sera, in seguito ad un guasto elettrico, tre piani rimangono completamente al buio. Il blackout dura solo quindici minuti, ma tanto basta per gettare nella confusione chi si trova lì:

« Nella galleria del decimo piano erano presenti circa duecento persone e molte erano rimaste ferite nel fuggi fuggi verso gli ascensori e le scale. Al buio era scoppiato un gran numero di assurdi e spiacevoli litigi, fra quelli che volevano scendere ai loro appartamenti ai piani più bassi e gli inquilini dei piani alti che insistevano per scappare di sopra, verso le più fresche altitudini dell’edificio. Durante il guasto due dei venti ascensori erano stati messi fuori uso. L’aria condizionata si era spenta e una donna, rimasta chiusa in un ascensore fra il decimo e l’undicesimo piano, aveva avuto una crisi isterica, forse per essere stata vittima di molestie sessuali. Il ritorno della luce aveva svelato un mucchio di relazioni illecite, fiorite col favore della totale oscurità come una specie di pianta carnivora. »

Una reiterata serie di piccoli blackout e i dissidi sempre più frequenti tra vicini incrinano definitivamente i rapporti fra i condomini, risvegliando pian piano la violenza repressa e l’odio di classe delle persone. I condomini iniziano ben presto ad organizzarsi in clan rivali, a seconda della classe sociale e del piano dell’appartamento. Dopo le prime schermaglie la situazione degenera velocemente fino a trasformarsi in un’orgia di violenza: sabotaggi di ascensori, barricate, uccisioni, rappresaglie, il tutto ambientato in un edificio oramai abbandonato a se stesso, dove nessun servizio funziona più, sia per mancata manutenzione, sia per deliberata violenza dei suoi inquilini (per i quali il grattacielo rimane comunque l’unico vero mondo in cui vale la pena vivere, tanto da non uscire nemmeno più fuori, troncando così ogni contatto con il mondo esterno).

Presto le battaglie coinvolgono l’intero palazzo. Tutti i condomini vengono coinvolti in un mondo di violenza primordiale, nel quale cessano di aver valore le leggi della società civile per tornare alla legge preistorica del più forte. In questo clima di rabbia e violenza generale, un giornalista di nome Richard Wilder, abitante ai piani bassi del condominio che si era proposto di girare un documentario televisivo sulla tipica vita all’interno di un grattacielo, incolpa la struttura stessa del disfacimento generale. Incomincia così una lunga, dura e pericolosa scalata ai piani alti, con l’obiettivo di raggiungere l’attico e con esso l’architetto del grattacielo, Royal, principale responsabile della degenerazione verificatasi. Si tratta, in realtà, di una vera e propria scalata sociale per Wilder: arrivare in cima al palazzo significa scalzare di fatto Royal dal ruolo di padrone assoluto del grattacielo. Regredito allo stadio primitivo (gira infatti quasi completamente nudo, sul petto si traccia con un rossetto segni tribali di cui va fiero e si limita a soddisfare solo i suoi impulsi primari), riesce a raggiungere la cima del grattacielo, superando barricate e ostilità, dove incontra l’architetto in persona. A questo punto gli punta, per gioco, una pistola, ma Royal equivoca il gesto: temendo di essere colpito, sferza il suo bastone cromato su Wilder che, per contro, gli spara e lo uccide (si nota che prima di allora mai un colpo d’arma da fuoco era stato esploso durante gli scontri, e questo semplicemente per una primordiale esigenza dello scontro fisico). Soddisfatto per il suo trionfo, Wilder si ritrova nel giardino delle sculture dove, “contagiato” dall’allegria e dalla spensieratezza dei bambini che giocano lì, si unisce ai loro giochi. Solo in un secondo momento si accorge anche della presenza di alcune donne, le quali dapprima lo osservano per poi accerchiarlo, armate ciascuna di coltello. Invece di scappare o difendersi, Wilder (al limite della consapevolezza) va loro incontro, come un bambino che si getta tra le braccia di sua madre.

L’unico dei tre protagonisti del romanzo che sopravvive è il dottor Laing, un medico che non si decide a praticare la professione, ma si limita ad insegnare all’università. Questo atteggiamento apatico e negletto che ha nella vita quotidiana lo riversa anche all’interno del grattacielo durante tutti i mesi di ostilità, dove si limita al ruolo passivo di affascinato spettatore, ma senza mai partecipare attivamente agli scontri. Inoltre dimostra una naturale abilità nell’adattarsi alla nuova situazione, ma senza lasciarsi contagiare dalla follia comune.

Il libro si chiude con l’inquietante immagine del grattacielo di fronte alle prese con un blackout, segnale dell’inizio della follia che si sarebbe scatenata di lì a poco anche in quell’edificio:

« Già si vedevano i raggi luminosi delle torce elettriche che scrutavano il buio, e gli inquilini facevano i primi, confusi tentativi di capire dove si trovavano. Laing li guardava soddisfatto, pronto a dargli il benvenuto nel loro nuovo mondo. »

Protagonisti

I tre protagonisti Royal, Laing e Wilder sono tre tipici esemplari delle classi sociali a cui appartengono:

  • Anthony Royal è il ricco architetto che ha creato il palazzo. Vive nell’attico e disprezza il comportamento delle classi inferiori.
  • Robert Laing è un giovane medico appartenente alla ricca borghesia che non ha mai curato un paziente. Cerca solo la tranquilla sopravvivenza sua e delle sue donne, senza interessarsi a quello che succede nel resto del condominio.
  • Richard Wilder è un giornalista ansioso di riscattare le sue umili condizioni. Sfida Royal per la supremazia nel palazzo.

Il condominio come metafora dell’età contemporanea

Il concetto di fondo che lo scrittore Ballard espone nel romanzo (poi ripreso come leitmotiv in altri suoi libri, come Il mondo sommerso) è quello della regressione dell’uomo – di fronte a particolari circostanze – ad uno stadio primitivo. L’uomo, in fondo, nasce come animale. Nel corso della sua evoluzione ha imparato a dominare i propri impulsi grazie al raziocinio, ma più questi vengono tenuti a freno e più si corre il rischio che esplodano – quasi senza preavviso – al verificarsi di particolari condizioni, annullando in un solo colpo tutte le conquiste tecnologiche e sociali per ritornare allo stato animalesco:

« Ora che tutto era tornato alla normalità, si rendeva conto con sorpresa che non c’era stato un inizio evidente, un momento al di là del quale le loro vite erano entrate in una dimensione chiaramente più sinistra. »

Non c’è mai un unico elemento responsabile dell’esplosione, bensì piuttosto una serie di concause che portano all’esasperazione un individuo (come i continui litigi e le rivalità mal celate tra gli abitanti di un grattacielo di mille appartamenti). Raggiunto questo punto, basta un solo evento per provocare l’esplosione, che può essere il più disparato quanto il più banale, come un semplice blackout. All’inizio la nuova situazione getta gli abitanti del condominio-grattacielo nel panico più totale, ma poi l’assenza di luce dà loro il pretesto immediato di dare libero sfogo a quegli impulsi così a lungo repressi, esplodendo così in atteggiamenti irrazionali, comportamenti deprecabili, violenza, perfino omicidio e cannibalismo:

« Al sicuro nella conchiglia del grattacielo, come passeggeri a bordo di un aereo con il pilota automatico, erano liberi di comportarsi in qualsiasi modo volessero, di esplorare le pieghe più oscure della propria personalità. Per molti versi il grattacielo era il perfetto modello di tutto ciò che la tecnologia aveva fatto per rendere possibile l’espressione di una psicopatologia autenticamente libera »
« Senza saperlo, [Royal] aveva costruito un gigantesco zoo verticale, con centinaia di gabbie accatastate l’una sull’altra. E allora, per cogliere il senso di tutti i fatti avvenuti nei mesi precedenti, bastava capire che quelle creature brillanti ed esotiche avevano imparato ad aprire gli sportelli. »

Ma quella della violenza è soltanto una fase verso una nuova normalità. Una volta raggiunto il culmine, la violenza è destinata a smorzarsi pian piano, per tornare necessariamente alla quotidianità, questa volta però non più fatta di regole, doveri e severa moralità, ma dove si è liberi di essere se stessi mostrando apertamente la propria natura, nel bene e nel male:

« Ogni nuovo episodio [di violenza] li avvicinava alla meta finale a cui tutto il grattacielo puntava, la costituzione di un regno in cui i loro impulsi più devianti fossero finalmente liberi di manifestarsi, in qualsiasi modo. A quel punto la violenza fisica sarebbe finalmente cessata. »

[Wikipedia]

 


“Mentre morivo” di William Faulkner

2 Mag

In onda Mercoledì 02 maggio alle ore 18 – e in replica Lunedì 7 maggio  alle ore 13 –  su Radio San Donà 102.200, Overbooking!

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Rimaniamo nell’ambito della letteratura statunitense, e questa volta tocca a un premio Nobel: William Faulkner e il suo “Mentre morivo”.

  • Titolo: Mentre morivo
  • Autore:William Faulkner
  • Editore: Adelphi
  • Anno di Pubblicazione: 2007

Trama

Mentre morivo (titolo originale As I Lay Dying) è un romanzo dello scrittore statunitense William Faulkner, pubblicato a New York nel 1930 dall’Editore Cape & Smith.

Nel libro viene narrata una storia semplicissima sul piano della mera fabula ma estremamente complessa su quello dello stile e della tecnica narrativa. Ed è proprio la forma peculiare e studiatissima a fare di questo impervio romanzo uno dei vertici della narrativa del XX secolo. Come ricorda Fernanda Pivano in un lungo saggio introduttivo a Luce d’agosto Faulkner scrisse Mentre morivo nell’estate del 1929, all’età di 32 anni, quando lavorava come fuochista alla centrale elettrica dell’Università di Oxford, Mississippi, e vi si dedicava “nelle ore di minor lavoro, tra la mezzanotte e le quattro del mattino, usando come tavolino una carriola capovolta[1]

Il titolo originale, As I Lay Dying, come dichiarava esplicitamente Faulkner, allude assai significativamente a un verso dell’Odissea che si trova nel famoso libro XI, quello della discesa agli inferi da parte di Ulisse, in particolare laddove Agamennone, ormai un’ombra, narrando all’amico vivo le circostanze dell’orrido delitto compiuto da Egisto e Clitennestra tra le mura della sua stessa casa, sottolinea dolorosamente che egli non ricevette dalla moglie “occhi di cane” alcun gesto di pietà nemmeno da morto. Nella versione citata a memoria da Faulkner il verso è il seguente: “As I lay dying the woman with the dog’s eyes would not close my eyelids for me as I descended into Hades”. Nella versione italiana di Aurelio Privitera esso suona così: “a terra morente (…) la faccia di cagna (…) non ebbe il cuore, mentre andavo nell’Ade, di chiudermi gli occhi”[2]. Come si vede, la stessa soglia del titolo, con le sue risonanze omeriche (e naturalmente anche eschilee, dunque tragiche), ci introduce nel clima funebre del romanzo, che mette in scena un rito di sepoltura, ora grottesco ora drammatico, carico di suggestioni simboliche antichissime.

Una famiglia di contadini poveri e primordialmente legati alla terra, i Bundren, è presentata mentre veglia insieme ad alcuni vicini sugli ultimi momenti di vita di mamma Addie. Siamo nella contea di Yoknapatawpha (l’immaginaria regione del Mississippi, qui nominata fuggevolmente solo una volta, già introdotta da Faulkner in Sartoris e ne L’urlo e il furore, entrambi del 1929), ed è un luglio insieme torrido e piovoso, che sconvolgerà il territorio con un’inondazione mai vista da quelle parti a memoria d’uomo. Morta Addie, il marito Anse e i cinque figli (Cash, Darl, Jewel, Dewey Dell e Vardaman) caricano la bara su un carro malconcio e partono per la lontana Jefferson, dove la donna era nata e dove desiderava essere sepolta. Questo viaggio carico di simboli archetipici e allegorie anche bibliche (il pesce, il cavallo, il diluvio, la discesa agli inferi, il rogo purificatore, il capro espiatorio), a causa dell’inondazione che trascina via i ponti del fiume, dura più di una settimana tra varie e tragicomiche peripezie, e occupa gran parte della narrazione. E sono proprio le difficoltà del viaggio e far esplodere i rancori che covano tra i membri della famiglia, ciascuno dei quali è prigioniero del proprio dramma privato e nasconde segreti e desideri più o meno inconfessabili. Giunti a Jefferson, i Bundren si liberano dei ‘miasmi’ tragici che li opprimono, seppellendo il cadavere in putrefazione di Addie (sono passati nove giorni dalla morte) e spedendo Darl al manicomio di Jackson, mentre la diciassettenne Dewey Dell, segretamente incinta, cerca di procurarsi un aborto farmacologico finendo involontariamente per prostituirsi a un droghiere senza scrupoli, che in cambio le dà da bere un intruglio che “puzzava d’acquaragia”. Così purificata, la famiglia si ricompone all’istante e realizza finalmente i piccoli sogni dei poveri, come le banane comprate da Dewey Dell per il piccolo Vardaman, il grammofono per Cash e i denti nuovi per lo sdentato Anse, che a Jefferson trova pure una nuova moglie.

Costruzione

Questa, in sintesi, la storia raccontata in Mentre morivo, che però prende forma lentamente attraverso un complesso contrappunto polifonico di monologhi, secondo la tecnica del flusso di coscienza che Faulkner mutua soprattutto da Joyce, ma piegandola alla propria peculiare esigenza di rappresentare in modo insieme crudo e profondamente elegiaco il mondo rurale e primitivo del Sud degli Stati Uniti. I 59 capitoli, non numerati, portano come titolo solo il nome del personaggio che di volta in volta prende la parola e racconta la storia dal proprio particolare punto di vista. Oltre ai sette membri della famiglia, ci sono altre otto voci monologanti: i vicini coniugi Tull (Cora e Vernon), il medico Peabody, il locandiere Samson, l’‘uomo di Dio’ Withfield, l’ospite Armstid e i droghieri Moseley e MacGowan. È molto interessante dare uno sguardo d’insieme alla distribuzione dei 59 monologhi, perché si vede, ad esempio, che se ben 19 sono assegnati al ‘folle’ Darl e 10 al piccolo Vardaman (uno dei quali, il 19, costituito da una sola frase: “Mia madre è un pesce”), uno solo, e non particolarmente significativo, è assegnato a Jewel, che pure ha una notevolissima presenza ‘scenica’ nei monologhi degli altri; fondamentale, invece, è l’unico monologo assegnato a Addie, che sembra addirittura parlare post mortem. Ecco, in ordine di apparizione, le 15 voci monologanti, seguite dai capitoli ad esse assegnati: Darl (1, 3, 5, 10, 12, 17, 21, 23, 25, 27, 32, 34, 37, 42, 46, 48, 50, 52, 57); Cora (2, 6, 39); Jewel (4); Dewey Dell (7, 14, 30, 58); Tull (8, 16, 20, 31, 33, 36); Anse (9, 26, 28); Peabody (11, 54); Vardaman (13, 15, 19, 24, 35, 44, 47, 49, 51, 56); Cash (18, 22, 38, 53, 59); Samson (29); Addie (40); Withfield (41); Armstid (43); Moseley (45); MacGowan (55).

Personaggi principali: i Bundren

Anse è un contadino inetto e testardo che, pur di tener fede alla parola data alla moglie, intraprende un viaggio lunghissimo e drammatico portando in giro una bara che già emana un fetore insopportabile, e alla fine avrà il suo tornaconto.

Addie è la donna radicata alla terra e al sangue che sa tutto il dolore della vita, biblicamente legato al parto. Sposa Anse senza amore e gli dà senza opporsi i figli che lui vuole secondo la tradizione contadina, ma vive la vera passione, nel peccato e al di fuori del matrimonio, con Withfield, che le dà un figlio. A lei Faulkner mette in bocca una straordinaria teoria pessimistica del linguaggio che denuncia la vacuità del logocentrismo maschile basato sull’assegnazione dei nomi alle cose che non si conoscono (come l’amore, la maternità, la paura, l’orgoglio, il sangue, la carne, la terra, il peccato e la salvezza), laddove le donne come lei, fedeli alla voce diretta delle cose, non hanno bisogno di nominarle per sapere che cosa siano.

Cash il falegname, forse il personaggio più poetico del romanzo, è anche il più straziante e il più straziato. Da un lato ha il compito, assegnatogli dalla stessa madre, di costruirle la bara sotto gli occhi mentre giace a letto morente, e dall’altro farà quasi tutto il viaggio tra dolori indicibili, perché si spezza una gamba nel tentativo di salvare il carro, i muli e la bara dalla piena del fiume. Ma è sua l’ultima parola del libro, ed è una parola che si apre alla bellezza consolatrice della musica, in quella che forse è l’unica nota di speranza nella terra desolata di Yoknapatawpha.

Darl, reduce disadattato della Grande Guerra, è il diverso, il figlio chiuso in una follia lucida che funge da occhio privilegiato, lirico e deformante, sugli avvenimenti (come si è detto, ben 19 dei 59 monologhi che costituiscono il romanzo sono suoi). La maggiore ampiezza, anche culturale, del suo sguardo irriducibilmente alieno rispetto al mondo chiuso di Yoknapatawpha (è stato in Francia durante la guerra), è segnalata linguisticamente dall’uso di espressioni comparative raffinate come “insetto cubistico” e “fregio greco” (cfr. “Darl” [50]). Tenterà persino, quasi al termine del viaggio, di dar fuoco alla bara per liberare la famiglia dal pestilenziale fardello, e per questo sarà internato in manicomio. In un passo importante, che metanarrativamente allude anche alla costruzione per sguardi del romanzo, così è descritto da Tull (31): “Lui mi guarda. Non dice nulla; mi guarda e basta, con quei suoi occhi strambi che fanno parlare la gente. Dico sempre, non è tanto quello che ha mai fatto oppure detto o qualsiasi cosa quanto come ti guarda. È come se ti fosse entrato dentro, in qualche maniera. È come se in un modo o in un altro tu ti stia guardando e guardando quello che fai con gli occhi di lui”.

Jewel è il frutto dell’adulterio di Addie, legato alla madre da un rapporto di amore e odio e tenacemente ostile a Darl, che sa il suo segreto. Accompagna sdegnosamente il corteo funebre in sella al suo inseparabile cavallo selvaggio, che Darl identifica con sua madre (in un complesso gioco di specchi simbolico, per cui Darl non ha madre, perché indesiderato e mai amato, Vardaman è figlio di un pesce, perché nato per pura meccanica fertilità, e Jewel è figlio di un cavallo, perché nato da una passione focosa: cfr. “Darl” [20]); ma alla fine lo darà via in cambio di una nuova pariglia, per sostituire i muli del padre affogati nel corso del drammatico attraversamento del fiume in piena.

Dewey Dell è la figlia precocemente cresciuta e vitale che prende il posto della madre e cerca di nascondere la sua gravidanza scaturita da una breve relazione con il giovane Lafe (e dato che Darl è l’unico a conoscere anche il suo segreto, sarà lei ad aiutare Jewel a far rinchiudere il fratello in manicomio).

Vardaman è il bambino innocente che assiste all’orrore (lo squartamento del suo pesce, la decomposizione della madre, gli avvoltoi che li seguono sempre più incombenti, il rogo del fienile appiccato da Darl, la prostituzione della sorella) sognando per Natale un trenino rosso visto una volta dietro una vetrina.

[Wikipedia]

“Little boy blue” di Edward Bunker

25 Apr

In onda Mercoledì 25 aprile alle ore 18 – e in replica Lunedì 30 aprile  alle ore 13 –  su Radio San Donà 102.200, Overbooking!

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A distanza di tempo, torniamo ad occuparci di Edward Bunker: questa volta tocca al suo romanzo quasi autobiografico, “Little boy blue”, in cui racconta la sua infanzia passata pressoché interamente in carcere.

  • Titolo: Little boy blue
  • Autore:Edward Bunker
  • Editore: Einaudi
  • Anno di Pubblicazione: 2003

Trama

Il protagonista è l’intelligente ma collerico Alex Hammond che a undici anni (durante laSeconda guerra mondiale) vive a Los Angeles solo con il padre Clem. Molti sono gli istituti dello stato della California e le famiglie affidatarie che lo hanno ospitato durante la fanciullezza, Alex è sempre scappato ed ora si ritrova in una casa di recupero, la Valley Home for Boys dove incolpevolmente (quasi) viene accusato di un furtarello. Le dure condizioni di vita e la rivalità violenta degli altri giovani reclusi lo spingono a fuggire e a mettersi sempre più nei guai dopo un furto in cui ha sparato al gestore di un emporio. Durante le ricerche del piccolo fuggitivo il padre morirà in un incidente d’auto lasciando completamente solo Alex; gli istituti e gli ospedali psichiatrici che lo ospitano si fanno sempre più duri, le differenze razziali si evidenziano e le prevaricazioni lo costringono a reagire in maniera sempre più violenta. La voglia di libertà, le amicizie sbagliate e le necessità di una vita sbandata trasformano Alex in un vero criminale che vive di rapine e spaccio tra un’evasione e l’altra. L’ultima speranza sembra essere la comparsa di una zia disposta ad accoglierlo, ma anche questa opportunità verrà bruciata dall’ira contro la società dell’ormai sedicenne Alex.

[Wikipedia]

“Trilogia della città di K” di Kristof Agota

11 Apr

In onda Mercoledì 11 aprile alle ore 18 – e in replica Lunedì 16 aprile  alle ore 13 –  su Radio San Donà 102.200, Overbooking!

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In studio un graditissimo ospite, e sodale di Radio San Donà, Mattia Peretti! Il giovane virgulto dialogherà con Alvise intorno a uno dei suoi libri preferiti, la “Trilogia della città di K”.

  • Titolo: Trilogia della città di K
  • Autore: Kristof Agota
  • Editore: Einaudi
  • Anno di Pubblicazione: 2005

Recensione

La recensione di oggi è dedicata a un romanzo che ha avuto molto successo negli ultimi anni, Italia compresa.
Anche se, per essere precisi, non si tratta di un romanzo unico, ma di una trilogia, come recita il nome stesso: parlo della Trilogia della città di K, scritto da Agota Kristof.

Agota Kristof è una scrittrice ungherese naturalizzata svizzera, che ha molto colpito l’immaginario letterario nella seconda parte degli anni 80 col suo primo libro, che per l’appunto è stato l’apripista di tale trilogia, ossia Il grande quaderno.

Negli anni successivi sono arrivati poi La prova e La menzogna, fino alla definitiva Trilogia della città di K.

La città di K sarebbe una città non meglio identificata di uno stato non ben definito, colpito dalla guerra e dalla povertà e vicino a una zona “libera”, anch’essa mai citata.
Considerando le origini della Kristof, tuttavia, è facile intuire che si tratti dell’Ungheria e dello scontro tra influenza sovietica e occidentale.

La Trilogia della città di K ha lasciato il segno per diversi elementi, tre soprattutto.

1. La struttura narrativa della trilogia, che in sostanza riporta gli stessi eventi, e spesso gli stessi personaggi, da differenti (molto differenti, come si vedrà) punti di vista.

2. Lo stile narrativo, scarno, essenziale e di un’efficacia disarmante.

3. La riflessione, triste e sconsolata, sull’animo umano e sulle vicende della vita, specialmente della vita difficile derivante dalla guerra e dalla povertà.

Ne Il grande quaderno si presentano i due personaggi principali, due gemelli che, per motivi contingenti legati al conflitto bellico, vengono lasciati dalla loro madre alla nonna, una vecchia antipatica e scorbutica.
I due, i cui nomi in questo libro non sono mai menzionati e che di fatto sono talmente uniti e in sintonia da essere intercambiabili, colpiscono immediatamente il lettore per la loro genialità e il loro cinismo.
Essi, in particolare, si segnalano per le accurate strategie e prove di sopravvivenza.

Ne La prova, i due gemelli si auto sottopongono alla prova più dura: la loro separazione.
Lucas (stavolta i nomi propri vengono usati) rimane, mentre Klaus va nel mondo “libero”, attraversando la frontiera.

Ne La menzogna, infine, si assiste a un quasi completo ribaltamento di quanto finora detto e dato per assodato, con la distorsione che è assai profonda e dura.

Nel frattempo, si sono visti molti personaggi, da Victor a Labbro leporino, da Mathias a Clara, molti dei quali veramente ben caratterizzati.

In definitiva, la Trilogia della città di K di Agota Kristof si distingue per molti punti, ed è certamente un buon libro, anche se mi rimane l’impressione che, per molti aspetti, sia un libro furbo, scritto ad hoc per suscitare certe reazioni di scandalo o di pathos.

Notevoli, in ogni caso, struttura narrativa e semplicità di stile, nonché l’esemplificazione di come verità e menzogna possano essere unite e interconnesse in modo quasi inestricabile.

Storia molto triste dal punto di vista emotivo, che probabilmente non piacerà a chi dalla letteratura vuole divertimento e passione.

Fosco Del Nero [www.librieromanzi.blogspot.it]

“Vita di Galileo” di Bertold Brecht

4 Apr

n onda Mercoledì 4 aprile alle ore 18 – e in replica Lunedì 9 aprile  alle ore 13 –  su Radio San Donà 102.200, Overbooking!

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Abbiamo come ospite in studio la prof.ssa Lucia Tracanzan, che ci parlerà di uno dei capolavori di Bertold Brecht, “Vita di Galileo”, analizzandolo da varie angolature e facendone cogliere la grandissima attualità!

  • Titolo: Vita di Galileo
  • Autore: Bertold Brecht
  • Editore: Einaudi
  • Anno di Pubblicazione: 2005

Sinossi

L’opera teatrale non intende raccontare la vita di Galileo per intero, Brecht si concentra solo sull’operato scientifico dello scienziato italiano, tralasciando tutta l’infanzia del protagonista. Il racconto inizia quando lo scienziato è ormai adulto, noto e rispettato.

Galileo si trova a Padova, dove insegna matematica presso l’università. Qui inizia a compiere i suoi studi a sostegno della teoria copernicana , contro il sistema aristotelico. La Repubblica Veneta era infatti l’unico stato italiano in cui l’Inquisizione romana non avesse potere, permettendo così agli studiosi che vi risiedevano di svolgere i propri studi con una certa libertà. Insegna le sue scoperte a un giovane discepolo, Andrea Sarti, e impartisce lezioni private di matematica a Ludovico Marsili, giovane di ricca famiglia. Per necessità economiche, Galileo trae spunto dalle scoperte olandesi per realizzare un cannocchiale e presentarlo alla Repubblica di Venezia. Grazie ad esso ,Galileo individua nuove prove a favore della tesi copernicana. Nonostante il suo amico Sagredo lo ammonisca sui rischi di tali scoperte, Galileo decide di continuare gli studi, affermando la sua fede nella ragione umana.

Lo scienziato però si trova in difficoltà economiche, che gli impediscono di dedicarsi liberamente alle sue ricerche. Per questo decide, nonostante le libertà offerte dalla Repubblica, di trasferirsi a Firenze.

Qui invita il giovane principe Cosimo de’ Medici ad osservare le scoperte da lui fatte attraverso il telescopio. Durante l’incontro però nasce un’ accesa disputa scientifica tra Galileo, un matematico e un filosofo, che si rifiutano di guardare attraverso il cannocchiale.

Nemmeno la peste riesce a distogliere Galileo dai suoi studi. Lo scienziato potrebbe fuggire, ma decide di restare a Firenze per continuare i suoi studi, seguito dalla sua governante, la signora Sarti.

Intanto le nuove scoperte di Galileo riguardo agli astri vengono approvate anche dalla Chiesa, grazie al favore del grande astronomo Cristoforo Clavio, nonostante l’indignazione di molti ecclesiastici. Tuttavia le tesi di Copernico vengono ufficialmente poste all’Indice dalla Chiesa, e per questo, durante un ricevimento, Galileo viene invitato da due cardinali a non proseguire i suoi studi sul cielo.

Galileo discute poi con un monaco se sia opportuno o meno rivelare le sue nuove verità. Il monaco sostiene che sia opportuno talvolta nascondere la verità , pur di non turbare le coscienze della gente, mentre Galileo sostiene che sia sempre necessario rivelare la verità, perchè essa rende veramente libero l’uomo.

Lo studioso, dopo il colloquio con i cardinali, decide di sospendere per otto anni gli studi sul cielo, dedicandosi alla fisica. Tuttavia, quando viene eletto papa il cardinale Barberini, uomo di scienza, Galileo decide di riprendre i suoi studi scientifici, sicuro che il nuovo papa sarà più transigente nei suoi confronti. Dedicandosi nuovamente alle sue attività scientifiche, già proibite dalla Chiesa, rende così impossibili le nozze di sua figlia.

Le tesi di Galileo si diffondono per l’Italia, diventando oggetto di testi satirici. Nonostante le resistenze opposte dal nuovo Papa, l’Inquisizione convoca Galileo ed egli, davanti agli strumenti di tortura, abiura tutte le sue tesi. Viene considerato dai suoi discepoli un traditore, e allontanato.

Trascorre gli ultimi anni di vita agli arresti in una casa sorvegliata dall’Inquisizione, ma riesce tuttavia a terminare di nascosto i Discorsi, un trattato di fisica. Consegna l’opera ad Andrea, suo fedele discepolo, che la porterà in Olanda, dove potrà essere stampata. Galileo compie una autoaccusa, incolpandosi di non aver sostenuto la verità fino in fondo, unico mezzo per ottenere la vera libertà.

“Acrobazie in bicicletta” di Alfred Jarry

28 Mar

In onda Mercoledì 28 marzo alle ore 18 – e in replica Lunedì 2 aprile  alle ore 13 –  su Radio San Donà 102.200, Overbooking!

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Facciamo un salto indietro fino a fine ‘800 e andiamo in bici insieme ad Alfred Jarry e la sua inseparabile Clément luxe 96!

  • Titolo: Acrobazie in bicicletta
  • Autore: Alfred Jarry
  • Editore: Bollati Boringhieri
  • Anno di Pubblicazione: 2010

Sinossi

Avido di esercizio fisico e di nuove sensazioni, Alfred Jarry . che divideva la stanza con l’adorata, e mai pagata, Clément luxe 96 . ci offre qui un’inedita lettura ispirata a una passione lontana tanto dalla competizione quanto dal cicloturismo, ai quale oppone “l’emozione della velocità nel sole e nella luce”, la possibilità di “catturare nel minor tempo possibile, in un rapido drenaggio, forme e colori lungo strade e sentieri sterrati”. E ci mostra i suoi protagonisti – Gesù in derapata sul Golgota, Issione attaccato alla ruota per l’eternità, l’acrobata dei velodromi – dediti, in sella a una bicicletta appunto, all’unico sforzo che per lui importava veramente: la ricerca d’assoluto.

 

 

L’autore

Alfred Jarry (Laval, 8 settembre 1873 – Parigi, 1º novembre 1907) è stato uno scrittore edrammaturgo francese.

La sua commedia più famosa è l’Ubu Roi (1896), considerata caposaldo e vera e propria pietra miliare del teatro dell’assurdo.

I testi di Jarry sono considerati tra i primi sul tema dell’assurdità dell’esistenza e hanno a che fare con il grottesco e il fraintendimento (si pensi al termine ‘merdre’ da lui coniato per significare qualcosa come ‘merda!’, ma non solo, evidentemente).

[Wikipedia]

“Una pantera in cantina” di Amos Oz

14 Mar

In onda Mercoledì 14 marzo alle ore 18 – e in replica Lunedì 19  alle ore 13 –  su Radio San Donà 102.200, Overbooking!

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Questa volta Alvise, da solo, si cimenterà con uno dei capolavori di Amos Oz, “La pantera in cantina!”

  • Titolo: La pantera in cantina
  • Autore: Amos Oz
  • Editore: Feltrinelli
  • Anno di Pubblicazione: 2010

Sinossi

Gerusalemme 1947: mentre gli eventi storici incalzano, un ragazzino ebreo di dodici anni vive un momento di grande significato nella sua vita. Ora che è adulto lo racconta. Dopo l’Olocausto, quando si rafforza il movimento clandestino per la nascita dello stato di Israele, anche lui ha fondato con un paio di amici una società segreta con l’obiettivo di combattere gli inglesi, che occupano la Palestina, rivendicando il diritto a una patria dopo tanta sofferenza. Lui è soprannominato Profi, abbreviazione di professore, perché è molto intelligente, ha una cultura enciclopedica, ama studiare le parole e leggere. Di carattere è comunque socievole e vivace, si considera coraggioso come una pantera e gode della simpatia dei compagni di gioco e di cospirazione. Almeno fino al giorno in cui non fa amicizia con il nemico, un sergente inglese che gli insegna la sua lingua in cambio di lezioni di ebraico. Da quel momento agli occhi degli altri diventa un vile traditore, e come tale va punito nonostante la sua pretesa di innocenza. Una pantera in cantina racconta una piccola grande storia di emozioni e sentimenti adolescenti, un’avventura di amicizia e di crescita, che pone domande incalzanti sulla colpa e sulla fiducia, in un contesto storico di epocali stravolgimenti. Profi è infatti testimone di fatti più grandi di lui, ma ci consente di coglierne appieno gli effetti sulle relazioni umane grazie al suo sguardo ancora candido, alla sua sensibilità intatta.

“Città della Pianura” di Cormac McCarthy & “Vertigini 2012”

7 Mar

In onda Mercoledì 7 marzo alle ore 18 – e in replica Lunedì 12  alle ore 13 –  su Radio San Donà 102.200, Overbooking!

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Ancora loro! Alvise, Ferdinando Morgana e Cormac McCarthy! Questa volta tocca a uno dei romanzi della trilogia della frontiera, e cioè “Città della Pianura”.

Inoltre ci sarà spazio anche per parlarvi delle iniziative del Teatrino della neve e della loro rassegna teatrale “Vertigini 2012”, le cui info potete reperire a questo link: teatrino della neve.

  • Titolo: Città della Pianura
  • Autore: Cormac McCarthy
  • Editore: Einaudi
  • Anno di Pubblicazione: 1999

Recensione

In questo romanzo, che conclude la “trilogia della frontiera”, McCarthy riunisce i protagonisti dei due libri precedenti: così John Grady Cole e Billy Parham, dopo i vagabondaggi e le esperienze iniziatiche di Cavalli selvaggi e Oltre il confine, si trovano a lavorare insieme in un ranch fra il Texas e il Messico. La vita dei due ragazzi si svolge tra l’addestramento dei cavalli, la difesa del bestiame degli animali selvatici, le serate sotto le stelle ad ascoltare i racconti dei vecchi cowboy, le bevute al bar, gli intrattenimenti al bordello cittadino. E proprio al bordello, una sera, John Grady incontra una sedicenne bella e triste che gli cambia la vita e trasforma il romanzo in una potente storia d’amore. Tra lui e il messicano Eduardo, cinico protettore -filosofo, legato alla ragazza da motivi di interesse ma anche da una passione non meno assoluta di quella di John Grady, si instaura un conflitto che prende varie forme e si concluderà in un duello dai toni nello stesso tempo iperrealistici, epici e matafisici.
Città della pianura è un romanzo che parte dove Cavalli selvaggi e Oltre il confine arrivano, e non solo per la trama. Il sogno della frontiera è diventato la realtà della frontiera, il confronto con l’altro, così diverso da noi ma anche così uguale. Stati Uniti e Messico, John Grady ed Eduardo, due culture, due stili di vita e visioni del mondo, ma gli stessi desideri e lo stesso tragico destino. In un West sempre più al crepuscolo (siamo nei primi anni Cinquanta e il ranch dove lavorano John Grady e Billy sta per essere espropiato dallo Stato) la natura splendida dei primi libri di McCarthy sembra essere domata come un cavallo “difficile”, ma esplode fuori e dentro i protagonisti, e ancora una volta si dimostra spietata.

“Sunset limited” di Cormac McCarthy

22 Feb

In onda Mercoledì 22 febbraio alle ore 18 – e in replica Lunedì 27  alle ore 13 –  su Radio San Donà 102.200, Overbooking!

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Continuamo la nostra rassegna di grandi autori e, dopo Alessandro Baricco con il suo “Mr. Gwyn” della scorsa puntata, questa volta Alvise e Ferdinando Morgana dialogano intorno a uno dei libri – “Sunset limited” – di Cormac McCarthy, balzato agli onori del grande pubblico dopo le trasposizioni filmiche dei suoi romanzi “Non è un paese per vecchi” e “La strada”.

  • Titolo: Sunset Limited
  • Autore: Cormac McCarthy
  • Editore: Einaudi (Collana L’Arcipelago)
  • Anno di Pubblicazione: 2008

Recensione

Si potrebbe cominciare dal dire che Sunset limited è un buon libro. Buono prima che bello.

Un buon libro direi che si distingue se è capace di sedimentare e di far germinare a lungo: un buon libro è più terreno che frutto insomma, e come la buona terra che dà buoni frutti va a fondo e ogni strato, dal più fertile e nero al più profondo e compatto, sono in relazione e sostegno l’uno per l’altro. Una buona lettura di questo libro non può quindi prescindere dalla complessa stratificazione di cui è tessuto e in cui lo scrittore si è, visibilmente, compiaciuto, dando luogo a una creazione che ha vita e spazio propri.

Tanto per riassumere il tema […] : “Nero, un uomo di colore, ex galeotto poi fattosi cristiano, salva Bianco, un intellettuale, dal suicidio: stava per gettarsi sotto il Sunset Limited, il treno passeggeri in servizio tra la California e la Florida fino alla fine del 2005, quando l’uragano Katrina devastò la rete ferroviaria di New Orleans e dintorni. Nero porta Bianco a casa sua, ma Bianco non è contento di essere stato salvato: voleva e vuole morire. La conversazione si svolge intorno a un tavolo, i cui lati sono come i due lati dell’Universo”.

A una prima lettura la situazione è semplice e schematica: il bianco è un triste intellettuale scettico, il nero un toccato dalla grazia. Il nero parla e il bianco ascolta. Il bianco non ha argomenti se non la sconfitta dei suoi stessi ideali e il nero è ricco di una ricchezza, una facondia di parola che non è in fin dei conti sua (“quando vi interrogheranno non abbiate timore di cosa dovrete dire, perché sarà lo Spirito a parlare in voi”). Il nero ha ragione e il bianco scappa. Tutto molto chiaro, dall’inizio alla fine.

O quasi. Perché in definitiva è la fine, la chiusa, che riapre totalmente i giochi e alza un cartello grande così: “NON TUTTO È COSÌ CHIARO E SEMPLICE, PER NESSUNO”, e costringe a chiedersi quale sia il senso vero di quel che ci è avvenuto leggendo. In effetti il Mistero, latente (quasi sornione) in tutto il dialogo, irrompe ed anzi straripa nelle ultime tre, quattro frasi e così mette in luce che, in realtà, è sempre stato lì, ma nessuno (nessuno! dei due nessuno) lo aveva guardato. E con quello strappo costringe il nero ad arrivare al centro di sé e chiedere, per la prima volta, la ragione per sé di quel dialogo, invece di cercare le ragioni per il bianco. È questo rovesciamento, questo dentro-fuori-dentro (ciò che era dentro, al fondo del dialogo, finalmente viene fuori, per poter entrare davvero e definitivamente nel nero) che costituisce non la chiave di lettura (le chiavi aprono e chiudono) ma il movimento, il gesto, la gestualità principale del racconto. Dentro-fuori-dentro e a fondo in un contesto che pare chiuso, definito e definitorio: è un modo per lo scrittore di far vedere (costringere a cercare, in primis) il mistero senza mai indicarlo e parlarne.

Cominciamo dal titolo: è il nome del treno che deve “prendere” il bianco, ma questo non lo sappiamo e il titolo è il primo punto di attacco e quindi non possiamo non guardare al potere evocativo che queste parole hanno. Una traduzione può essere, letteralmente, “tramonto limitato”, ovvero “tramonto, ma con un limite, una limitazione”: “limitato” come in “proprietà limitata” o “responsabilità limitata”, che non va oltre un certo limite, che si ferma su una soglia. Un tramonto ma con dei limiti, non definitivo, come se il sole non tramontasse davvero ma si limitasse ad arrivare basso sull’orizzonte, quasi tutto sotto il limite (appunto) dell’orizzonte ma come una promessa di rialzarsi, ri-sorgere (up-rising). L’inglese ha una espressione per questa zona di chiaro-scuro: “twilight zone”, quasi intraducibile, che indica, diremmo noi “l’ora in cui tutti i gatti sono bigi”. Il bianco e il nero si confondono, fondono, scambiano i ruoli. Perché la posizione interessante dell’autore è che, senza “prendere posizione” tra i due, non per questo li confonde in un indistinto “tutti hanno ragione e tutti hanno torto”: è chiaro che uno solo può aver ragione, ma non si sa chi è, e averli portati al “limite del tramonto” li porta a scambiarsi in definitiva i ruoli. Ancora il movimento di rovesciamento che si esplicita appunto nel nero che si interroga su di sé: il problema è il suo, il dramma è il suo, è lui che deve essere salvato, è lui che ha bisogno di un angelo custode che lo venga a salvare.

E dunque non è fin dall’inizio così: chi è tentato (dalla morte, dal fallimento) non è il bianco ma il nero, chi dubita davvero alla fine è il nero, che deve ritrovare la forza di non “prendere il treno” ma di ributtarsi tutto nel mistero. E allora il nero non è l’angelo salvatore: il bianco è forse invece l’angelo tentatore, non mandato da Dio ma da Dio permesso perché la virtù del nero sia provata (Giobbe). La partita non è fra le ragioni del credente e le ragioni dell’ateo: la partita in definitiva è tra il credente e Dio (Giacobbe al passaggio del fiume) e chi ha perso (il nero) può uscirne vincitore (ma segnato nel corpo). Dentro-fuori-dentro.

Perché di una partita evidentemente si tratta: “il nero muove”, “il bianco abbozza una difesa”, “il nero tenta un attacco”, “il bianco arrocca”. È fin troppo evidente nel succedersi di nero-bianco-nero ma anche nell’ambientazione (due davanti a un tavolino spoglio, un tot di tempo a testa) e nella successione delle aperture e delle strategie. Il nero attacca ingenuamente, il bianco è più tattico, il nero cerca tempo per ulteriori mosse ma il bianco lo logora lentamente mangiandogli i pezzi, fino al contrattacco finale, spietato, “il bianco muove e vince in tre mosse”, fine (no). E non si può non farsi venire in mente un’altra grande partita a scacchi con in palio vita e morte: quella tra il Cavaliere e la Morte ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. La morte lì è nera, sarcastica, terribilmente razionale e il cavaliere bianco muove per scappare dalla morte ma poi per andarle incontro.

Come d’altronde non si può non tenere presente gli altri spunti letterari collegati al tema dell’angelo custode/protettore e eventualmente salvatore di un tentato suicida: La vita è meravigliosa di Frank Capra e Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. Del primo rimane l’idea dell’aspirante angelo (il nero qui, lì il buffo Clarence) che deve fare una buona azione per meritarsi le ali, nel secondo (più prossimo) il tema del rovesciamento dei ruoli è esplicito, gli angeli scelgono di diventare uomini e gli uomini (lo stazzonatissimo Peter Falk che interpreta se stesso) ricordano di essere stati angeli. Indirettamente quindi anche le poesie di Rilke che fecero da ispirazione a Wenders.

Ripercorrendo all’indietro sono poi tanti gli indizi che costruiscono i molti strati di lettura del libro. Il salvataggio del bianco non è sostanzialmente fisico: quasi non c’è un gesto ma un prima (il tentato suicidio), e complanare l’abbraccio del nero. La stessa presenza e posizione del nero nella stazione ha del misterioso. La stessa ambientazione un po’ claustrofobia (i chiavistelli alla porta, i drogati che assediano la stanza) contribuisce a un’atmosfera di sospensione.

In definitiva il libro che pare in fin dei conti bloccato (tanto che ci si chiede, avanzando nella lettura: “vediamo ora come ne esce fuori, l’autore, da questo avviluppo”) è poi sfondato e riaperto ad ogni possibilità. Avendo dato per centocinque pagine ragione al nero e silenzio al bianco,  rovesciando poi la vittoria dal campo del nero a quello del bianco e riaprendo tutto con l’urlo finale, non c’è nulla di concluso, ma tutto è (di nuovo) possibile. Il nero può farcela. Il bianco stesso, perché dovremmo essere certi del contrario, può farcela.

[Andrea Bonvicini per Libri Consigliati]


Estratto

NERO Quando hai deciso che oggi era il gran giorno? Cos’è, ha qualcosa di speciale?
BIANCO No. Be’, guardi. Oggi è il mio compleanno. Ma che reputi la cosa speciale, proprio no.
NERO Allora buon compleanno, professore.
BIANCO Grazie.
NERO Insomma, hai visto che stava arrivando il tuo compleanno e hai pensato che era il giorno più adatto.
BIANCO Chi lo sa. Magari i compleanni sono pericolosi. Come il Natale. Decorazioni sugli alberi, ghirlande sulle porte, e cadaveri che penzolano dai soffitti di tutta l’America.
NERO Mm. Il che non depone molto a favore del Natale, giusto?
BIANCO Il Natale non è più quello di una volta.
NERO Su questo ti do senz’altro ragione. Al cento per cento.

L’autore

Cormac McCarthy, nato nel Rhode Island nel 1933, è cresciuto a Knoxville, Tennessee, dove ha frequentato l’università ed è poi tornato a più riprese nel corso della vita. Attualmente vive a El Paso, in Texas. Nel catalogo Einaudi sono disponibili Il guardiano del frutteto, Figlio di Dio, Il buio fuori, Meridiano di sangue, la trilogia della frontiera, costituita da Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura, Non è un paese per vecchi, portato sugli schermi cinematografici da Joel e Ethan Coen, La strada, vincitore del Premio Pulitzer 2007, Sunset Limited e Suttree, pubblicata nel 1979 dopo una gestazione di oltre vent’anni e tuttora giudicata la sua opera più personale e più ambiziosa.